Omicidio di Colleferro - Dott. Valeria Bigarella

No, per fatti atroci come l’omicidio di Colleferro non servono pene esemplari.

Serve una cultura diversa. Del rispetto, della non violenza.

Come prevedibile si è scatenata una violenta reazione sui social in seguito all’omicidio a Colleferro del povero Willy Monteiro Duarte, pestato fino alla morte da 4 bestie, non è possibile definirli altrimenti.

Una delle reazioni più pacate, è quella di chi auspica pene severe, esemplari, certe. Ora, se certamente questi 4 delinquenti meritano la massima severità, non possiamo non interrogarci su come arginare questo tipo di violenza, su come sia possibile in qualche modo prevenirla.

Qualcuno ha parlato dell’ambiente delle palestre in cui si insegnano arti marziali, dando in parte la responsabilità a chi li ha “formati” a questo tipo di disciplina. Un collega ha proposto una sorta di “patentino” per praticarle: si dovrebbe cioè verificare che chi acquisisce la capacità di offendere non abbia precedenti per reati violenti e si sottoponga a controlli psicologici periodici che confermino la sua sanità mentale, analogamente a chi detiene il porto d’armi.
Sicuramente si tratta di una proposta interessante, che mi trova favorevole.

Omicidio di Colleferro - Dott. Valeria Bigarella
Omicidio di Colleferro – Dott. Valeria Bigarella

Ma la radice del problema a mio avviso è un’altra.
Si tratta della cultura della violenza, della legge del più forte, del vanto di incutere “rispetto” e timore per la propria forza, dell’ostentazione minacciosa della potenza.
Si tratta anche del disprezzo per gli altri, gli inferiori, chiunque, a qualunque titolo, non piaccia. Non a caso un familiare di uno di questi ragazzi avrebbe minimizzato l’accaduto dicendo “non hanno fatto niente, hanno solo ucciso un immigrato”.
Ecco. Secondo questa cultura qui, uccidere un immigrato è niente. Ma poteva essere anche altro, un “tossico”, una “zecca comunista”, un “ebreo di m***a”, un “ladro schifoso”, una “lurida pu****a” e potrei continuare all’infinito.

Il problema nasce quando qualcuno, non importa chi, non importa quando, si arroga il diritto di pensare che la vita di qualcun’altro non valga nulla. E di agire, a parole o a fatti, secondo questo principio.

È una cultura razzista, fascista e patriarcale.
Non è un caso l’appartenenza ad ambienti di estrema destra. L’idea che “io sono superiore, e tu, inferiore, sei solo feccia, e non meriti di vivere, al massimo posso concedertelo se mi ubbidisci”. Questi sono gli “ideali” che giustificano e legittimano questi comportamenti. “La mia stessa forza è dimostrazione di superiorità”.

Ho usato anche il termine patriarcale, sì. Perché fascismo e patriarcato sono due facce della stessa medaglia, e chiedersi quale venga prima è come chiedersi se nasca prima l’uovo o la gallina. Perché si tratta della stessa cultura che è all’origine della violenza di genere e dei tanti femminicidi a cui assistiamo, impotenti. La donna non è persona, è oggetto, proprietà di qualcuno. Se non accetta di stare nel suo ruolo di sottomessa, se lascia il compagno, se lo tradisce, se non sta alle sue regole si merita di essere “rimessa al suo posto” e magari anche uccisa. Secondo la cultura fascista e patriarcale gli immigrati sono un pericolo per le “nostre” donne. E non a caso l’odio si scatena ferocemente contro le donne che difendono i migranti (Laura Boldrini, Cecilia Strada, Carola Rackete) o osano “accoppiarsi” con loro (pensiamo a Silvia Romano, colpevole di essersi convertita all’islam e forse di essere incinta di qualche suo carceriere: le circostanze di questa eventuale gravidanza non contano, è una vergogna e basta).

È la stessa cultura che è anche all’origine della mafia: “qui comando io, e se vuoi stare qui si fa come dico io”. O ubbidisci o ti distruggo.

Allora, come possiamo arginare questi fenomeni, così presenti nella nostra cultura e nella nostra società?
Intanto cambiando il linguaggio, e smettendo di minimizzare o giustificare la violenza verbale e il disprezzo per l’altro. Chi esulta per la morte dei migranti quando affonda un barcone o addirittura parla di sparargli o dargli fuoco, alimentata questa stessa cultura dell’odio e della violenza.

Ma anche la colpevolizzazione delle vittime è un fatto di rilievo. Pensiamoci un attimo: quanti hanno detto o pensato che in fin dei conti Stefano Cucchi era solo un tossico? Non è diverso dall’affermare che Willy era solo un immigrato.
Anche in questo caso ci sono stati giornalisti che hanno chiesto perché si trovasse lì, se avesse discusso con i suoi assalitori. Ma perché, la cosa è forse rilevante? Se anche gli avesse risposto male, se gli avesse rubato dei soldi, o una ragazza (sì, secondo questa pseudo cultura fascista e patriarcale le donne sono oggetti che si rubano, non persone con una volontà propria che scelgono) in tal caso meritava di morire così?
E lo stesso trattamento viene riservato alle donne violentate o uccise. Com’era vestita? Perché si trovava là? Aveva lasciato il suo compagno, lo aveva tradito? Come se in queste condizioni lo stupro o il femminicidio fossero giustificabili, comprensibili.
Perché negli Stati Uniti è nato un movimento che si chiama Black Lives Matter? Per riaffermare il concetto basilare che ogni vita ha un valore, anche quelle delle persone di colore. Anche quelle dei migranti sui barconi. Anche quelle dei tossici, degli zingari, delle puttane, per citare il linguaggio dispregiativo così ampiamente usato. Ecco. Iniziamo a riumanizzare queste persone. E a non legittimare chi augura loro la morte con tanta disinvoltura. Perché poi qualcuno a passare dalle parole ai fatti fa molto presto.
È già successo. A Firenze, a Macerata, a Colleferro. E purtroppo succederà ancora, se non cambiamo tutti atteggiamento. Se non ritroviamo un po’ di umanità. Restiamo umani. Ne abbiamo davvero bisogno.

Omicidio di Colleferro – Dott. Valeria Bigarella

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